Dea Culpa recensita da Claudio Fulvio Bernardi


  Bastano tre calendari sulla schiena e già cominciamo ad assemblare immagini e parole, con la foga dei bambini che hanno trovato nel senso comune il nuovo giocattolo preferito. Cresciamo incastrandole fra loro come piccole, mostruose vertebre. Già ci condanniamo a passare l’età dei ripensamenti nel tentativo di disincastrare quelle vertebre schiacciate, sempre con la pretesa di farcela da soli (siamo tutti geni incompresi, n’est-ce pas?). Ma fin tanto che questa pretesa resta nel nostro spazio ridotto non può che portarsi dietro tutti i suoi problemi posturali, che si fanno sempre più granitici. 

 Potremmo approcciarci alle arti letterarie e visive con lo stesso amor proprio con cui ci si approccia a una fisioterapia, ma il più delle volte preferiamo schiumare bava con l’aggressività degli animaletti chiusi in gabbia: “troppi libri!”, “tutti artisti!”, “chi recensisce vuole essere recensito!”. Allarmati. Siamo allarmati. Sempre nella convinzione che concedere spazio altrui debba necessariamente significare rinunciare a uno spazio proprio, senza mai prendere in considerazione l’idea che – al contrario – possa allargarlo. Tanto più se parliamo di uno spazio ch’è un’apertura alare, che va dall’immediatezza dell’immagine alla stratificazione della parola.

 E come potrebbe questo affastellarsi visivo-concettuale generare spazio? Semplice: le arti letterarie e quelle figurative, malgrado le pressioni similmafiose che ricevono da ogni lato, possono ancora scegliere di non essere performative. Possono ancora esistere mefistofelicamente, come pura negazione dall’intrattenere le masse. Di modo che le varie chiare e ginevre di turno possano smembrarle, scarnificarle, ripulirle e riassemblarle nello spazio bianco dell’intimità. Il non assistere a queste operazioni (che pure sarebbero ben gettonate nella mondanità delle terrazze romane o nell’avanguardia dei garage milanesi) ci rende fortunatamente, sanamente suscettibili all’impatto. Non devono esistere premesse al ritrovarsi davanti a una staccionata di candele, che cinge un praticello di spine e buchi neri, dove occhieggiano una casa senza porte, un cuore forato, una testa di pesce, un Virgilio diafano che ha i femori al posto delle scapole come guida. È ciò che deve accadere nell’immediato, al frusciare dei tendoni di velluto dev’esser già tutto pronto.

 Altrimenti abbiamo tempo di edificare, di ricostruirci il nostro sacro spazio ristretto: ci diamo tempo di dirci che una staccionata di cera avrebbe un costo enorme, che annaffiare le spine è attività malsana, che i buchi neri vanno riempiti e le finestre non sono tagli e un cuore forato sarebbe un organo morto e una testa di pesce magari no e in ogni caso i femori fanno comodo lì dove stanno. Nel frattempo le vertebre del senso comune cric e crac che continuano a schiacciarsi le une contro le altre, mentre le cartilagini mandano lettere malinconiche da terre lontane. E nei nostri trasportini, con l’arcano terrore del veterinario, riprendiamo a latrare come bestioline messe alle strette: “troppe immagini in giro!”, “troppe parole nelle orecchie!”, “troppi stimoli al mondo!”, “chi lo accetta lo fa per tornaconto!”.

 Pare inevitabile che le chiare e le ginevre del caso, uscendo frastornate dal dormiveglia dei propri tempi creativi, non possano che sentirsi in colpa. Del resto in questo mondo di trasportini e latrati con quale diritto ci si concedono spazi bianchi?

 La risposta non può essere data dalle dirette interessate, ma può essere data senza difficoltà da un qualsiasi fruitore: ha diritto alla creazione di spazi vergini chiunque poi metta questi spazi a disposizione degli altri. Non si tratte di riempire un teatro, si tratta di svuotare uno spettatore. E già possiamo segare in due la rassegna di latrante umanità. L’intimismo egotico di chi tutto esige come dovuto risarcimento resti pure nel trasportino, la categoria sbagliata zuppa di poesia si dia da fare.

 «Ma se le stesse autrici ammettono di sentirsi in colpa» grida il Giudice Parrucco, fra proiettili di bava: «con che diritto intervieni proprio tu che non c’entri niente?!»

 Beh in primo luogo va detto che io c’entro eccome – anche disteso –, perché mi è stato donato lo spazio vergine, quello in cui disincastrare le vertebre del senso comune. In secondo luogo sia ben chiaro che non ho visto autrici da nessuna parte, solo falene irradiate di luce nella penombra delle proprie ali e gerbilli tuttocchi a cui mezzosorridere di ritorno dai funerali. In terzo luogo, Vostro Onore, ricordo ch’essere semplici passanti per le colonie penali e per gli arcobaleni tristi non è reato. A maggior ragione in questo mondicino di Franz, dove uniche leggi sono il senso comune e quello di colpa. Questo quello che direi se fossi risoluto, cosa che ovviamente non sono. Cosa che ovviamente non siamo.

 Eppure questa gita fuori dal trasportino valeva bene la pena, diciamoci la verità. Non foss’altro che per ricordare che sindromedellabbandono non è una parola unica, e quindi bisogna farsi in quattro per dire a doppia voce taci sindrome! taci abbandono! Non foss’altro che per ricordare che le correzioni sanguigne che ci portiamo dietro dalle scuole elementari magari servivano solo a smorzare una seconda parte della vita, scritta solo a bile nera.

 E quindi… volete a tutti i costi pensare che se si recensisce bene un’opera è perché lo si vede come un tassello obbligatorio per conquistare la Polonia? Pensatelo pure, non mi cambia granché. Io levo le tende da questa colonia penale prima di subito: monto a cavallo del mio secchiello senza carbone e volo via, allontanato dall’agitarsi di uno strofinaccio. Mi basta sapere che esistono ancora parole non illustrabili e immagini non didascalizzabili. Questo è il mio preziosissimo carbone. Quando i calendari sulla schiena cominciano a spezzare ossa come bastoncini e ci si dimentica della forma delle foglie, potrebbe non essere vergogna rivolgersi a un professionista. E un semplice libriccino – a differenza del Giudice Parrucco – può essere un ottimo professionista.

 

***

 

 «Caro, hai sentito?»        

 «Torna a dormire, non è niente.»

 «Niente? Ma se mi ha svegliata!»

 «Saranno gli animali nel trasportino.»

 «Mh… sembrava più il rumore di un graffio che dice fiorite dove siete piantati, stronzi!»


Claudio Fulvio Bernardi per Dea Culpa